Tornano a salire i bond con rendimenti negativi e negoziabili sul mercato nel mondo. Dai dati di questi giorni di Bloomberg, risulterebbero a quota 8.800 miliardi di dollari, in crescita di quasi 1.000 miliardi rispetto a quasi due mesi fa. Di questi, 2.980 miliardi di euro sono titoli di stato dell’Eurozona, pari al 40% del totale, la percentuale più alta da 9 mesi, seppure nettamente inferiore al 60% a cui si era portata nell’estate del 2016, quando il mercato obbligazionario mondiale segnalò il picco di titoli con rendimenti negativi e sui 12.000 miliardi di dollari.
Investire in Bund con rendimenti negativi? Ecco perché avrebbe senso
E’ un mondo sottosopra, dove chi si indebita viene pagato da chi i suoi debiti li acquista. Frutto di una politica monetaria non convenzionale, che ha reagito alla crisi finanziaria del 2008 con maxi-iniezioni di liquidità, attraverso l’acquisto di bond sul mercato (“quantitative easing”) e/o l’adozione di tassi negativi. Questi ultimi sono presenti nell’Eurozona e in Svizzera, in forma di “tassa” sui depositi delle riserve bancarie eccedenti quelle minime regolamentari, oltre che in Svezia e Giappone, con riferimento ai tassi di riferimento. Tutto, pur di spingere le banche a non parcheggiare liquidità e a metterla in circolo, sostenendo il credito, l’economia e i prezzi. La paura di rivivere i tempi bui della Grande Depressione degli anni Trenta ha preso il sopravvento negli ultimi anni, anche se non si può certo dire che l’accomodamento monetario estremo abbia sortito effetti positivi omogenei e visibili ovunque.
Cosa significano i rendimenti negativi?
Il concetto di rendimento negativo, dicevamo, appare strampalato. Chi acquista un Bund a 5 anni, ad esempio, il quale rende il -0,4%, mette in conto una perdita cumulata alla scadenza del 2% (0,4% x 5 anni) dell’investimento. Ad essa bisogna sommare l’inflazione cumulata del periodo. Anche solo ipotizzando che la crescita media dei prezzi nel paese di provenienza dell’investitore fosse dell’1%, otterremmo un 5% di perdite reali, che portano al 7% quelle totali. Dunque, fatto 100 l’investimento in un quinquennale tedesco, perderei il 2% nominale e il 7% reale (ipotesi ottimistica) alla scadenza.
Sorge spontanea una domanda: perché mai un investitore dovrebbe “bruciare” denaro? Non sarebbe meglio tenere la liquidità ferma su un conto a tasso zero, che almeno si eviterebbe di accollarsi perdite certe? La risposta non è così scontata. Se siamo un investitore individuale, che cerca verosimilmente solo di impiegare i propri risparmi per salvaguardare il potere di acquisto, puntare su un bond con rendimento negativo effettivamente si rivelerebbe una mossa tendenzialmente sbagliata, a meno di non possedere tempo e conoscenze molto adeguate sui futuri movimenti del bond.
A cosa ci riferiamo? Un titolo lo si acquista spesso non per tenerlo in portafoglio fino alla scadenza, bensì per rivenderlo anche prima a prezzi più alti. Prendiamo il Bund febbraio 2025, cedola 0,5%. Se lo avessimo comprato un anno fa, adesso ci avrebbe già reso il 3,6%. Dunque, i rendimenti già negativi sono diventati ancora più in perdita per l’investitore, ma grazie alla plusvalenza realizzata dall’aumento di prezzo, l’operazione si sarebbe rivelata molto positiva. Ovviamente, nessuno ci dice che un bond già prezzato eccessivamente continui a salire. Anzi, se l’economia andasse bene e l’inflazione accelerasse, ci sarebbero tutte le condizioni per un ritorno alla crescita anche dei rendimenti, considerando che questi siano bassi o negativi per effetto di politiche monetarie espansive tese a contrastare la crisi.
Rendimenti negativi ipoteca sul futuro
Perché i rendimenti tedeschi restano negativi
Tuttavia, nemmeno con la (temporanea) risalita dell’inflazione in Germania e nell’Eurozona fin sopra il 2% tendenziale si è registrato un calo delle quotazioni del bond tedesco e un contestuale rialzo dei rendimenti. Perché? Il mercato ha dovuto nel frattempo fare i conti con i rischi politici derivanti dall’Italia, con il caos Brexit e i timori di rallentamento dell’economia globale. E poiché i Bund, come i bond giapponesi, sono percepiti porti sicuri contro le tensioni internazionali, i grossi investitori istituzionali vi si sono buttati ancora di più a capofitto.
Attenzione, però, perché dietro si celerebbero anche ragioni diverse dal semplice acquisto a scopo protettivo, cioè i rendimenti negativi sarebbero anche conseguenti a scommesse speculative sul cambio. Pensate solo allo yen, che in meno degli ultimi 3 mesi ha guadagnato il 3,5% contro il dollaro. E per un investitore non dell’Eurozona, ad esempio, ha senso acquistare un bond tedesco, se entro la scadenza si aspettasse che l’euro si apprezzi contro la valuta del suo paese in misura tale da più che compensare le eventuali perdite derivanti dal calo delle quotazioni. Ad esempio, se un americano attendesse che il Bund alla scadenza nel febbraio 2025, venendo rimborsato alla pari e lo avesse acquistato oggi a quasi 105, per allora perderebbe circa il 2%, al netto delle cedole incassate, ma se nel frattempo il cambio euro-dollaro si fosse apprezzato del 7%, si sarebbe portato a casa un rendimento effettivo del 5%. Poco, se l’inflazione USA cumulata nel periodo superasse tale percentuale, ma in tempi di rendimenti glaciali, non sarebbe così male.
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Il rischio euro
Ma se la volontà fosse perlopiù di speculare sul cambio, perché non acquistare un BTp, che sulla medesima scadenza offre già un rendimento positivo dell’1,7%? Purtroppo per noi, i nostri bond sono percepiti a rischio sovrano relativamente alto per una economia avanzata, mentre quelli tedeschi vengono trattati sui mercati come se fossero “risk free”.
Immaginiamo uno scenario estremo, per fortuna assai improbabile, per quanto non impossibile: l’uscita dell’Italia dall’euro. A quel punto, una banca italiana che avesse acquistato bond tedeschi si ritroverebbe a bilancio un investimento denominato in una valuta ormai straniera e che verosimilmente si sarà rivalutata contro la lira di diversi punti percentuali, per ipotesi (prudenziale) del 30%. Ecco, un Bund a 5 anni, acquistato teoricamente in perdita al rendimento lordo del -0,4%, si sarebbe rivelato un affare, in quanto verrebbe rimborsato in euro-marchi a un valore contro la lira del 30% superiore a quello dell’investimento. Il solo effetto “cambio” avrebbe portato in dote un rendimento annuale del 6%.
Ecco, quindi, che gli spread BTp-Bund lungo l’intera curva delle scadenze di Germania e Italia fornirebbero, pur in maniera spicciola, una misura grossolana del rischio incorporato di rottura dell’euro. Che un quinquennale italiano renda il 2,1-2,2% all’anno in più di un omologo tedesco sarebbe, in poche parole, conseguenza anche del rischio percepito che alla scadenza i nostri BTp vengano rimborsati in lire o che lo stato italiano non sia in grado di onorare il pagamento per intero. Che si tratti di ridenominazione del titolo o di “haircut, entrambi consentiti dalle CACs sin dal 2013, il mercato starebbe scontando un 10% abbondante di investimento in potenziale perdita nei BTp rispetto ai Bund, solo per restare su un arco temporale medio-lungo. A 10 anni, lo spread cumulato s’innalza ad oltre il 28% e sui 30 anni siamo in area 30%.
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