Andres Manuel Lopez Obrador, noto anche come AMLO, è stato eletto presidente del Messico nell’estate scorsa su una piattaforma programmatica molto progressista e anti-sistema, tanto da essere stato definito il “Trump di sinistra”. Insediatosi da pochi mesi, ha già sul tavolo un dossier delicato, quello che riguarda Petroleos Mexicanos o Pemex, la compagnia petrolifera statale. A gennaio, la produzione giornaliera è scesa a 1,62 milioni di barili, segnando il minimo record. Solamente 5 anni fa, si aggirava sui 2,5 milioni. Nessun governo è riuscito a rimetterla in carreggiata e le estrazioni diminuiscono di anno in anno sin dal 2004, con un -7% nel solo 2018.
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Per cercare di migliorarne le condizioni finanziarie, AMLO ha assunto una decisione in sé positiva, sebbene abbia finito per indisporre i mercati: tagliare le tasse sugli utili di Pemex. Si consideri che l’utile pre-imposta viene gravato da un’aliquota del 95%, percentuale superiore persino a quella che viene applicata dal Venezuela di Nicolas Maduro sui profitti di PDVSA. Ragionevole, quindi, che si decida di abbattere una tassazione così soffocante, da avere impedito negli ultimi decenni alla compagnia di accumulare risorse sufficienti per gli investimenti, con conseguenze abbastanza negative per la tenuta della sua produzione, un discorso che ben conosce Caracas.
I rischi per il Messico
Qual è il problema? Per quanto in declino, Pemex continua a rappresentare la gallina dalle uova d’oro per lo stato messicano, contribuendo per un quinto delle sue entrate fiscali, a fronte di un’incidenza di appena il 3,4% sulla formazione del pil, meno della metà di 25 anni fa.
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Il Messico non ha un elevato rapporto debito/pil, il quale si attesta sul 46%. Tuttavia, ha alle spalle una storia poco rassicurante. Negli anni Ottanta, fu la prima economia ad essere stata salvata dal Fondo Monetario Internazionale con un piano improntato sullo scambio tra aiuti e riforme. Peraltro, ad oggi le obbligazioni di Pemex sono considerate sostanzialmente assimilabili a quelle del debito pubblico, visto che lo stato è anche unico titolare. Ne consegue che il taglio delle tasse a beneficio della compagnia rischierebbe di far salire il deficit statale, rendendo meno facile l’eventuale “bail-out” a cui AMLO si troverebbe costretto da qui a qualche anno, nel caso in cui le condizioni finanziarie della major petrolifera non migliorassero. Si consideri, ad esempio, che i 47,9 miliardi di liquidità disponibile quest’anno potrebbero non bastare, pur in presenza di trasferimenti statali per 17 miliardi.
Una delle cause e al contempo degli effetti dei guai di Pemex sta nella bassa produttività del lavoro. I suoi 130.000 dipendenti estraggono mediamente 15 barili al giorno a testa, la metà della brasiliana Petrobrás e meno di un quinto degli 80 della russa Rosneft e della norvegese Equinor. In pratica, ci sono troppi lavoratori per pochi barili estratti, conseguenza anche della politica di bassi investimenti degli anni passati. Per questo, paradossale che possa apparire, proprio il presidente più di sinistra che s’immaginasse potesse governare questa grande economia emergente starebbe per aprire le porte della compagnia al capitale privato.
Obbligazioni Pemex, quali rendimenti
Adesso, le obbligazioni Pemex hanno rating “BBB-” e outlook negativo per Fitch e S&P e “Baa3” per Moody’s. Il rating sovrano messicano è, invece, “BBB+” con outlook negativo per Fitch e S&P e “A3” con outlook stabile per Moody’s. Parte degli analisti scommette che il Messico perda il suo status di “investment grade” nei prossimi anni. Le probabilità che ciò avvenga sono legate anche all’andamento della compagnia, che se richiedesse un intervento del governo, graverebbe negativamente sul debito pubblico. Per fortuna, un po’ di sollievo lo sta offrendo il cambio, con il peso ad avere guadagnato più dell’8% contro il dollaro da novembre, pur perdendo il 30% negli ultimi 5 anni.
Le obbligazioni con scadenza febbraio 2025 (ISIN: XS0213101073), cedola 5,5%, emesse in euro, rendono il 3,7%, praticamente circa 200 punti base in più degli omologhi (per durata) titoli di stato italiani, i secondi più alti dopo la Grecia di tutta l’Eurozona. I bond gennaio 2022 (ISIN: US71654QBB77), cedola 4,875%, denominati in dollari USA, rendono circa il 4,7%, sui 220 bp in più dei Treasuries a 3 anni. E spostandoci sulle scadenze più longeve, il giugno 2038 (ISIN: US706451BR12), cedola 6,625%, anch’esso emesso in dollari americani, rende oggi il 7,7%, qualcosa come ben 400 bp in più del ventennale di Washington. Tutti e tre i titoli hanno segnato ribassi nell’ultimo anno, perdendo rispettivamente il 6%, l’1,5% e il 6%. I bond sovrani del Messico a 10 anni rendono, invece, poco più dell’8%, in calo dal 9,24% toccato a novembre e poco meno del titolo a 12 mesi, che offre l’8,18%, giù dall’8,67% di novembre.
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