L’iShares Convertible Bond Etf, la cui performance segue quella delle obbligazioni convertibili in dollari di almeno 250 milioni all’atto della loro emissione, quest’anno ha guadagnato poco meno dell’11%, sostanzialmente in linea con i rialzi di Wall Street in questi primi 5 mesi del 2019. Al contrario, nel 2018 aveva chiuso in calo di quasi l’1%, ben meno il tonfo di oltre il 6% accusato dall’indice S&P 500. Ad ogni modo, le obbligazioni convertibili seguono sostanzialmente la performance del mercato azionario.
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Qual è la differenza con le obbligazioni convertibili? Queste assegnano al titolare la facoltà, non l’obbligo, di convertire in azioni i bond a partire da una certa data e ai prezzi di conversione prefissati all’atto della loro emissione, la quale non può avvenire sotto la pari. Immaginiamo che un bond di 100 euro tra due anni possa essere convertito in 50 azioni. Ciò significa che ciascuna azione viene valutata 2 euro (100 : 50). Se dalla data stabilita, il prezzo delle azioni si trovasse sopra i 2 euro, potrebbe avere senso effettuare la conversione, in quanto si acquisterebbe per meno titoli che potrebbero essere rivenduti immediatamente alle quotazioni superiori. In pratica, otterremmo una plusvalenza. Viceversa, se le azioni valessero meno del prezzo di conversione, non avrebbe senso registrare minusvalenze, oltre tutto esponendosi al rischio di perdere anche tutto, che è nella natura del capitale.
In teoria, l’obbligazionista dovrebbe convertire le azioni quando il valore di queste supera quello dei bond, comprensivo delle cedole residue fino alla scadenza.
Quando convengono questi bond
Le cedole corrisposte sono generalmente più basse di quelle di pari scadenza sulle obbligazioni ordinarie, proprio perché dal tasso d’interesse si sconta l’opzione di acquisto delle azioni. Attenzione, però, perché è facile spesso notare un tonfo del prezzo delle azioni all’atto dell’emissione di obbligazioni convertibili. Perché? Queste ultime aumentano potenzialmente il numero delle prime, abbassando sia la quota di capitale di ciascun azionista, sia il valore unitario delle cedole corrisposte. Se una società emette 1.000 bond convertibili a un prezzo di 10 ciascuno e possiede un capitale suddiviso in 10.000 azioni, sempre per ipotesi da 10 euro ciascuna, qualora tutti i titoli fossero convertiti, le azioni in circolazione aumenterebbero del 10%, riducendo l’utile per azione e il dividendo potenziali.
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Non a caso, la legislazione italiana prevede che le obbligazioni convertibili debbano essere offerte in opzione ai soci, così da garantire loro di poter evitare la diluizione del capitale posseduto. E l’emissione deve essere approvata dall’assemblea degli azionisti convocata in seduta straordinaria, data la natura dell’operazione. Detto questo, possiamo supporre che le obbligazioni convertibili siano preferibili nelle fasi di tassi calanti, quando cioè le azioni tendono a salire di prezzo. Va da sé, invece, che le società potrebbero trovare conveniente emetterle, in particolare, nelle fasi di tassi in crescita, in quanto corrisponderebbero cedole relativamente basse agli obbligazionisti. In ogni caso, all’emittente conviene che la conversione venga effettuata, dato che si libererebbe automaticamente di un debito, evitando l’esborso cash.
Il caso peggiore che possa accadere all’obbligazionista convertibile sarebbe di arrivare alla scadenza con le azioni a prezzi inferiori rispetto a quelli di conversione, avendo nel frattempo investito in uno strumento finanziario meno redditizio delle alternative disponibili. Di solito, questi titoli sono popolari tra le start-up, le quali per i primi anni tendono a registrare perdite, mentre una volta avviatesi potrebbero produrre utili anche piuttosto elevati. Difficile riscuotere l’appetito degli azionisti, in questi casi, meno quello degli obbligazionisti, specie se allettati dalla prospettiva di guadagni anche enormi nel caso di successo dell’iniziativa imprenditoriale.