Chi non risica non rosica, dice il proverbio. Ma da un po’ di tempo a questa parte, colpa della crisi e di tutte le maledette ed eccessive paure che i media hanno infuso nei piccoli e grandi risparmiatori, la corsa verso i porti sicuri si è rivelata fallimentare. Il megacrack della Lehman Brothers quattro anni fa ha aperto scenari nuovi nel mondo della finanza spingendo i tassi d’interesse verso lo zero, ma ha anche scoperchiato le debolezze e la fragilità di un sistema del credito che poggiava esclusivamente su una crescita indiscussa della ricchezza globale a debito.
Ad approfittarne, alla fine, sono state ancora una volta le banche e i grandi fondi d’investimento che hanno rastrellato soldi a basso costo per investirli a loro volta con remunerazioni più alte lucrando su quel differenziale che per decenni si è retto prevalentemente su raccolta e impieghi e che non poteva più stare in piedi con i tassi a zero e una crescita economica sottozero. E il volano sono diventati i titoli statali a breve termine delle economie più avanzate, i Bot in Italia. Così da un po’ di tempo, pur di dormire sonno tranquilli molti risparmiatori italiani sono tornati ad affidarsi ai classici Bot che al netto dei costi, delle tasse e delle commissioni, si sono rivelati investimenti a tutti gli effetti perdenti. Al netto dell’inflazione, ad esempio, i Bot a un anno rendono meno della metà del tasso d’interesse offerto. Posto come tasso di partenza un 2% lordo, al netto delle commissioni bancarie e di deposito titoli, al netto dell’inflazione (3,3%) e al netto delle imposte sugli interessi percepiti (12,5%), dopo 365 giorni un risparmiatore che avesse deciso di investire 1.000 euro nel debito pubblico tricolore, se ne ritroverebbe meno di 990.
Chi compra Bot e perchè. Il ruolo dei fondi d’investimento
Ma allora chi compra i Bot? Partendo dal fatto che l’Italia è agli ultimi posti – secondo l’OCSE – fra i paesi europei per educazione finanziaria, per le banche non risulta difficile collocare Bot allo sportello, soprattutto a quella parte di clientela che in passato investiva pesantemente sui titoli di stato a breve termine e che adesso, nonostante i tassi siano vicini allo zero, continua ostinatamente a rinnovare questi strumenti non conoscendone altri.
Ma non è questo l’unico canale che le banche utilizzano per scaricare titoli rastrellati in fase di collocamento dal Ministero dell’Economia. Gran parte dei buoni ordinari – spiegano gli esperti – viene scaricata sui fondi d’investimento e sulle polizze vita che sono obbligate a tenere in portafoglio titoli di stato che abbiano la massima garanzia, salvo poi dover rendere conto dei rendimenti alla clientela, in fase di riscatto. Soprattutto da quando nel 2006 è entrata in vigore la legge che ha istituito i fondi pensione privati per la gestione dei Tfr maturati in azienda. La maggior parte dei fondi monetari e dei fondi pensione, infatti, non riesce a battere il
benmchmark di riferimento e chi riesce è solo grazie a una diversificazione del proprio portafoglio verso strumenti diversi e più remunerativi dei Bot. Non si tratta di un fenomeno solo italiano, comuqnue. In Germania, ad esempio, i rendimenti negativi stanno costringendo la Bundesbank a comprare titoli che non vengono sottoscritti in asta, mentre in Belgio e Austria si è deciso di limitare l’offerta sulla parte breve della curva per evitare problemi. Dal punto di vista dello Stato, invece, c’è da dire che il Tesoro riesce in questo modo a rifinanziarsi a costi molto bassi, ma alla fine il conto lo pagheranno ancora una volta i piccoli risparmiatori che vengono invogliati dallo Stato stesso (attraverso esenzioni da imposte o agevolazioni fiscali) a detenere strumenti finanziari che non rendono nulla.