L’Italia sta attraversando una grave emergenza sanitaria con la pandemia del Coronavirus, nonché una crisi economica e fiscale di rilevanti proporzioni. Se fossero vere le previsioni che già circolano da giorni, il nostro pil crollerebbe quest’anno a doppia cifra e lo stesso deficit si porterebbe in area 10%, mentre il rapporto tra debito pubblico e pil esploderebbe anche oltre il 160%. Il mercato ha iniziato a scontare i maggiori rischi, tant’è che nei giorni scorsi i “credit default swaps” a 5 anni sono schizzati fino a un massimo 264 punti base, quasi il triplo dei minimi di febbraio, pur scendendo a 142 bp nell’ultima seduta della scorsa settimana.
Lo stesso spread BTp-Bund a 10 anni si è impennato a un massimo di oltre 300 bp, salvo anche in questo caso rientrare ai livelli più contenuti di 180 bp. Ma è servito l’intervento della BCE per spegnere almeno la fase più acuta delle tensioni finanziarie. Lo stesso fatto che a Bruxelles si discuta di quale strumento adottare per aiutare l’Italia nei prossimi mesi la dice lunga sui rischi concreti di ristrutturazione del debito sovrano. Facciamo una premessa doverosissima per non alimentare panico inutile: l’Italia sta continuando a rispettare tutte le scadenze e, per quanto i prossimi mesi si riveleranno molto duri, disponiamo di strumenti sufficientemente adeguati per evitare il peggio.
In questa sede, vogliamo interrogarci, però, su cosa significherebbe rinegoziare il debito. Non sarebbe un processo immediato, che si attuerebbe dalla sera alla mattina. Esso richiede l’apertura di una trattativa con gli obbligazionisti sui nuovi termini offerti dallo stato e passerebbe per un voto a maggioranza qualificata dei secondi, dai due terzi al 75% del capitale, a seconda dell’oggetto della votazione (doppia: per ciascuna emissione e tra tutti gli obbligazionisti dei titoli oggetto di ristrutturazione).
Quali titoli temere di più e quali di meno
Nel caso dei BTp, le Clausole di Azione Collettiva (CACs) consentono tutte queste azioni e anche la ridenominazione in un’altra valuta, che sarebbe eventualmente la lira, nel caso in cui decidessimo di uscire dall’euro (ipotesi remota). Le CACs hanno reso più chiaro il processo di rinegoziazione dei debiti in tutta l’Unione Europea, stabilendo cosa il governo possa fare e quale maggioranza servirebbe per ottenere il placet dei creditori. Ma queste clausole non sono apposte su tutti i bond, bensì solo su quelli emessi dall’1 gennaio 2013 con durata superiore ai 12 mesi (esclusi i BoT) e per un massimo del 45% delle emissioni complessive annuali.
Debito pubblico: ristrutturazione possibile con le CACs, ecco cosa rischia l’investitore in BTp
Dunque, due sono le categorie di titoli di stato a non essere con certezza eventualmente sottoposti a un processo di ristrutturazione: i BoT e i BTp emessi prima del 2013. Quanto ai BoT, visti i rendimenti infimi offerti negli ultimi anni, negativi fino a qualche settimana fa, non immaginiamo che un piccolo investitore li compra. Sono strumenti perlopiù di interesse per il canale bancario e assicurativo. E di BTp emessi prima del 2013 se ne trovano ancora? Senza dubbio. Uno di questi è il BTp agosto 2034 e cedola 5% (ISIN: IT0003535157). Chiaramente, parliamo delle emissioni fino al 31 dicembre 2012.
Un altro è il BTp febbraio 2033 e cedola 5,75% (ISIN: IT0003256820) e un altro ancora il BTp maggio 2031 e cedola 6% (ISIN: IT0001444378). A questi, come abbiamo scritto sopra, si aggiungono le emissioni anche successive al 2012 per quella quota minima del 55% non rientrante annualmente nelle CACs.