Ultimamente non si fa che parlare di obbligazioni ibride sulla stampa specializzata. Titoli subordinati che non hanno una durata finanziaria predefinita o che ce l’hanno molto distante nel tempo e il cui richiamo è deciso dall’emittente solitamente entro 5 o 10 anni dalla data di emissione. Per gli emittenti che godono di una buona solidità patrimoniale e costanti flussi di cassa (banche, utility e telefonici in genere) sono una fonte di approvvigionamento che si inserisce come costo del finanziamento tra le azioni e le obbligazioni tradizionali.
In un contesto di tassi bassi di mercato parecchi emittenti ritengono più efficiente finanziarsi attraverso questo strumento, non solo per migliorare la struttura del credito ma anche perché non diluisce il valore per gli azionisti e viene contabilizzato sui parametri patrimoniali solo al 50% come debito. Molti analisti sostengono che tali strumenti finanziari vengono utilizzati per bypassare onerosi e dolorosi aumenti di capitale preservando quindi le quotazioni azionarie. Per l’investitore non professionale, però, i bond ibridi sono particolarmente rischiosi, poiché il rimborso è previsto solitamente dopo 60 anni e non è detto che l’emittente eserciti il diritto di rimborso anticipato (call) dopo 10 anni. Dipenderà dalle condizioni di mercato e dalle capacità dell’emittente di poterlo fare. In caso di difficoltà, il debito potrebbe andare a naturale scadenza e per chi ha sottoscritto tali bond sarebbero dolori, nonostante la generosità della cedola. Tuttavia, da più parti si ritiene che il forte sviluppo di questa asset class continuerà nei prossimi mesi e sarà sempre più presente nei portafogli della clientela privata e istituzionale.
Obbligazioni ibride inaccessibili per il risparmiatore comune
Ma come fare a negoziare questi titoli che solitamente sono riservati a investitori istituzionali o qualificati e prevedono tagli minimi dai 100.000 euro in su? In Italia di recente hanno lanciato con successo questo tipo di strumento Enel – in euro, sterline e dollari – e Telecom Italia in euro, mentre al di fuori dei confini nazionali gli ultimi ibridi sono stati quelli lanciati da Iberdrola, dalla svizzera Alpiq e da Edf, oltre che da dalla cinese Hutchison Whampoa, che ha raccolto 1,75 miliardi di euro.
Ma come fare ad averne un lotto minimo? Se non si dispone di particolari requisiti per investire su questi titoli, non è possibile comprrli se prima non è trascorso un anno dalla loro emissione, come prevede la legge (tutta italiana!) che, in questo senso, va a penalizzare l’investitore condizionando il libero mercato. A parte questo, vi è poi lo scoglio insormontabile per molti risparmiatori del taglio minimo di trattazione da 100.000 euro nominali che taglia fuori il 90% dei potenziali pretendenti lasciando ai soli big player il privilegio di potervi accedere e questo è un problema che non riguarda solo l’Italia. Cosa fare allora? Rimane la strada dei fondi d’investimento. Ma quali? Di fondi obbligazionari ce ne sono un’infinità e scegliere quello giusto è alquanto problematico e quasi sempre il funzionario di banca indirizza il cliente verso i prodotti della casa che nei loro panieri includono un po’ di tutto, dai titoli di stato alle obbligazioni corporate nazionali o estere, in euro o in valuta. Trovare un prodotto specifico è quasi impossibile, ma qualcosa sta cominciando a muoversi visto il sempre più nutrito interesse degli investitori verso i bond ibridi.
Azimut lancia AZ Fund Hybrid Bonds per investire in obbligazioni ibride europee
In tal senso, Azimut ha lanciato in questi giorni il primo fondo Ucits IV in Europa che investe interamente in obbligazioni ibride, un prodotto pensato soprattutto per la clientela di fascia medio-alta dell’asset manager indipendente con un importo di sottoscrizione minimo di 25.000 euro. Il fondo, spiega una nota di Azimut, acquisterà solo bond ibridi con una durata finanziaria al richiamo pari a 4 anni e mezzo.
Il fondo è pensato soprattutto per la clientela di fascia alta del gruppo e la gestione si concentrerà sulla scelta dei titoli in portafoglio e sulla verifica quotidiana della solidità degli emittenti. “Ancora una volta – commenta Paola Mungo, direttore generale Azimut – il gruppo si è mosso per primo per cogliere le opportunità di una tendenza che deve ancora esprimere tutto il suo potenziale e per dare accesso agli investitori a una nuova asset class. Anche in questo caso la nostra indipendenza e flessibilità ci hanno consentito di essere reattivi, anticipare i trend futuri, e continuare a innovare”. Ma se questa rappresenta una buona opportunità per l’investitore medio, occorre prestare attenzione ai costi. Il fondo prevede infatti una
fee d’ingresso che va dal 2 al 3% per alcune classi del fondo e un 2,5% di commissioni d’uscita per altre tipologie, oltre a spese di gestione, come meglio indicato nel prospetto riportato qui sotto. Costi che, generalmente sono inferiori per chi ha la possibilità di acquistare direttamente i titoli, fa notare un analista.
Azimut Hybrid Bonds